
questa storia è scritta da: Laura Dell'Edera
Storia a tre voci di donne che il destino o il caso ha fatto incontrare e storia di tre viaggi: il viaggio reale di Tamar che arriva dalla Georgia in Italia, in cerca di lavoro, il viaggio introspettivo di Elvira che ha perso le certezze della propria vita, dopo l’incidente in cui il marito e morto ed il loro figlio Andrea è restato invalido.
Sveta, la terza voce, é la figlia di Tamar, arrivata in Italia dopo la morte del padre, in un mondo che le é estraneo, ma in cui, inaspettatamente, scoprirà l’amore.
Il racconto si conclude con una quarta voce, quella piccolina di Aurora, la figlia di Sveta ed Andrea, che con le nonne va in Georgia a scoprire l’altra parte delle sue radici.
1. Tamar
Dalla finestra aperta sulla notte estiva entra il frinire dei grilli. Tamar non riesce a prender sonno e guardando il cielo, si ricorda un altro pezzo di cielo, con le stesse stelle, il Piccolo Carro e la Stella Polare, che Andrea le ha insegnato ad individuare: un pezzo di cielo da un finestrino in alto, sopra la sua testa, da cui non entrava un alito di vento, nella calda estate in cui era arrivata in Puglia.
Si soffocava in quel garage dove Anna, il loro contatto in Italia, una polacca dagli occhi sfuggenti e la sigaretta quasi sempre tra le labbra, le aveva condotte, appena giunte da un finto tour attraverso l’Europa, iniziato a Tbilisi, in Georgia, fino a Rimini, meta di moda tra i russi che potevano permettersi vacanze all’estero, per raggiungere infine in treno una città sconosciuta, Bari. Un mese di viaggio, con improbabili tappe di pochi giorni nelle capitali dei paesi che attraversavano, senza vederle davvero o visitarne i luoghi più famosi, che Irina, la loro finta guida russa, si sforzava di illustrare, senza convinzione, con voce monotona, durante i lunghissimi percorsi in pullman, tra una sosta e l’altra. Sposata con un georgiano, Irina aveva organizzato un’agenzia di viaggi specializzata in rotte clandestine. La faccenda doveva fruttarle abbastanza bene, dato che diceva, con orgogliosa supponenza, che stava comprando una dacia vicino a San Pietroburgo, dove voleva trasferirsi con l’obiettivo di tornare a casa sua, in Russia.
Invece l’obiettivo in ciascuna di loro era “arrivare”. Erano partite in trentacinque, trentacinque donne con altrettante storie di dolore e di speranza. Poche di loro, le più giovani, alla ricerca di una vita diversa, magari di un uomo da sposare; la maggior parte partiva per aiutare i vecchi genitori, i figli, per pagare loro gli studi o, come Tamar, per pagare i debiti della sua famiglia.
In Italia erano arrivate in quindici. Le altre si erano fermate in Germania, dove avevano conoscenze o parenti. Il contatto di Tamar era una cugina del marito che lavorava a Bari. Era stata lei a parlarle delle possibilità del lavoro di badante, quando l’estate precedente era tornata a Telavi, per le ferie, un lavoro ben pagato, anche 10 volte il suo stipendio di insegnante in Lari, la moneta georgiana.
Intanto stavano in un garage da cui non dovevano uscire, perché potevano essere viste, aspettando che Anna avesse il lavoro “giusto” da proporre a ciascuna di loro, in cambio del quale le avrebbero versato il primo stipendio.
Di giorno chiacchieravano piano, mangiando pane e formaggio che Anna portava, raccontandosi dei cari lasciati in Georgia, delle speranze e dei sogni ed il tempo passava in fretta. La notte invece era terribile. Il materasso, steso per terra, era stretto e Dodo, la vicina di Tamar, si girava nel sonno venendole quasi addosso. Cercava di spingerla dolcemente più in là con un sospiro e desiderava essere altrove, a casa sua, accanto a Luka ed a Sveta, la sua bambina, che a volte dormiva ancora abbracciata a lei, come quando era piccola e le cercava il seno…
Tamar non ricordava di avere avuto mai così caldo a casa sua. Quando un fiotto amaro di lacrime la assaliva, inspirava con forza per ricacciarlo indietro. Aveva pianto già abbastanza, ma c’era ancora spazio per altre lacrime… Pure credeva di averle versate tutte quando tutto si era capovolto intorno a lei, a causa della guerra civile*, quando Luka le aveva confessato che erano sommersi dai debiti e che rischiavano di perdere la loro casa. La sua casa, quella in cui era nata, quella in cui aveva trascorso l’infanzia e che suo padre le aveva regalato quando si era sposata. Una casa piena di ricordi di sua madre persa troppo presto, ma anche della sua vita con Luka e con Sveta, la sua dolce bambina.
Poi una notte, una come tutte le altre, al garage era arrivata la polizia, che aveva avuto una soffiata, forse da un vicino curioso o da qualcuno a cui Anna aveva “pestato i piedi”, come dicono in Italia. Lei era stata arrestata e tutte loro trasferite a Lecce in un centro di accoglienza per clandestini senza permesso di soggiorno.
Tamar aveva pensato, rassegnata, che tutto fosse finito, che sarebbe stata rimpatriata in Georgia, e che i 5.000 dollari pagati per il viaggio, anch’essi presi in prestito, avrebbero solo accresciuto i loro debiti. Invece, grazie alla direttrice del centro, che l’aveva presa a benvolere, perché si era offerta come traduttrice estemporanea di lingua russa che ai tempi dell’URSS aveva imparato a scuola, era riuscita ad avere un permesso temporaneo ed a trovare lavoro in una pasticceria di Lecce, a lavare pentole ed infornare dolci.
Tamar stava al caldo anche lì, ma non le pesava più così tanto. Cominciava a guadagnare qualcosa, e mandava tutto a casa.
Ed un giorno nella pasticceria erano entrati Elvira ed Andrea.
Tamar aiutava, come al solito, la ragazza italiana che serviva al bancone, confezionando pacchetti ed imbustando le ordinazioni. Cominciava a masticare un poco di italiano, perché al centro di accoglienza, alla sera, facevano frequentare agli ospiti lezioni per imparare i rudimenti della lingua italiana. A lei piaceva perché aveva una buona predisposizione per le lingue e, diversamente da altre ospiti del centro, desiderava capire di più del posto in cui le circostanze l’avevano condotta.
“Vorrei che mi preparaste una torta per domani.” aveva chiesto la signora (allora Tamar non sapeva che si chiamasse Elvira).
Era una donna non molto alta, vestita in modo accurato, con i capelli corti, scuri e ricci, con qualche striatura di grigio, Non era truccata, a parte un velo di rossetto, intonato alla sciarpa di seta che portava al collo. Era entrata nel negozio spingendo una sedia a rotelle su cui era seduto un ragazzino con i capelli lisci e scuri che gli cadevano sugli occhi, altrettanto neri. Doveva avere più o meno l’età della sua Sveta. Lui si guardava intorno abbastanza infastidito e tamburellava le lunghe dita sui braccioli della sua sedia a rotelle. “Ma’, non mi va di festeggiare, te l’ho detto!“ Aveva esclamato sbuffando, nel modo che hanno i ragazzi di quell’età, quando sono contrariati, in qualsiasi parte del mondo.
“Mi hai promesso che avremmo invitato i nonni per il tuo compleanno. Non possiamo disdire tutto, Andrea. Ho anche preso un giorno di ferie per organizzare. Abbi pazienza… Almeno per i nonni…” aveva sussurrato la signora, lanciandogli un’occhiata severa.
Tamar non aveva compreso tutto quello che si dicevano, ma aveva capito la parola compleanno e le era venuto spontaneo chiedere al ragazzino, nel suo stentatissimo italiano: “Tuo compleanno…Quanti anni, tu?”
“Compirà 13 anni domani.” aveva risposto per lui la signora, gentilmente, dato che il ragazzino restava in ostinato silenzio, guardando altrove.
“Mia bambina Sveta, lei anche 13 anni fra uno mese… come tu. Anche lei dice che no festa…”
“Visto, ma’?” aveva esclamato trionfante il ragazzino, voltandosi verso sua madre “A 13 anni si è troppo grandi per festeggiare i compleanni. E non ne ho voglia, davvero!”
La madre aveva sospirato. “Va bene. La torta la prendiamo, comunque. I nonni si aspettano di vederti. Non spegnerai nessuna candelina…” Poi, dopo aver concluso l’ordinazione, si era rivolta a Tamar: ”Sua figlia frequenta la scuola media qui a Lecce? Si trova bene?”
“Tamar è qui da sola.” era intervenuta la ragazza del bancone, rendendosi conto che lei non aveva compreso la domanda. “Viene da un paese chiamato Georgia, ma non quella dell’America…dalla Russia…”
“La Georgia non è in Russia. E’ una nazione dell’Asia occidentale.” Era intervenuto il ragazzo, voltandosi a guardarla.
Tamar gli aveva sorriso ed aveva annuito, contenta che qualcuno sapesse dov’era il suo mondo, la sua casa. Poi si era rivolta alla madre, nel suo inglese scolastico, sperando di farsi capire: “I am a teacher. Before coming to Italy, I taught teenagers. I know how they are….” (Sono un’insegnante. Prima di venire in Italia, ho insegnato agli adolescenti. So come sono…) Ed aveva aggiunto, rivolta al ragazzo: “I think your mom is happy to celebrate with you. I would love to, but my daughter is so far from here…” (Credo che tua madre sia felice di festeggiare con te. Piacerebbe anche a me, ma mia figlia è così lontana da qui...)
Un lampo di simpatia aveva attraversato gli occhi chiari della signora. Il ragazzino era restato in silenzio, ma l’aveva guardata incuriosito.
Tamar non pensava che quell’incontro casuale avrebbe cambiato il corso della sua vita, nei 15 anni futuri.
Dopo qualche giorno Elvira era venuta al centro di accoglienza e con l’aiuto della mediatrice culturale, le aveva proposto di lavorare per lei, di occupandosi della sua casa e di suo figlio Andrea.
Naturalmente aveva accettato…
All’inizio non era stato facile. Tamar non capiva molto di quello che le dicevano. Andrea si immusoniva e la mandava a quel paese. Elvira, invece, le parlava in fretta, senza rendersi conto che lei arrancava ed a volte diceva “si signora”, senza aver capito assolutamente nulla. Poi aveva seguito il suggerimento della mediatrice culturale del centro di accoglienza di guardare in TV una stazione dove davano telenovele così ripetitive e scontate che, alla fine, aveva imparato l’italiano.
Elvira ed Andrea vivevano in una villa affacciata sul mare, in un paese piccolo con un grande faro bianco, a qualche chilometro da Lecce, San Cataldo.
Quando era piccola, con i suoi genitori e poi con Luka e la sua piccola Sveta, era stata a Batumi, sul Mar Nero e questo mare, con la sua spiaggia sabbiosa le ricordava i periodi felici della sua vita passata.
La casa di Elvira non era però una casa felice, almeno non quando vi era entrata. Si respirava tristezza e rassegnazione. Tamar si occupava delle pulizie, faceva compagnia ad Andrea, quando sua madre era al lavoro e lo accompagnava all’auto che veniva a prelevarlo per portarlo a scuola o dal fisioterapista e poi, nel pomeriggio, al conservatorio, dove studiava musica.
Col tempo, aveva iniziato ad accompagnarlo lei stessa, con una macchina attrezzata per i disabili che Elvira aveva acquistato quando le aveva detto di saper guidare. Tamar aveva preso la patente quasi per sfida, in Georgia, una sfida per Luka e la sua famiglia, in cui le donne non avevano mai guidato, una specie di puntiglio. In realtà, fino a quando era arrivata a San Cataldo, aveva avuto poche occasioni di guidare un’automobile: alla scuola dove insegnava ci arrivava tranquillamente a piedi e Luka e suo padre, se erano nei paraggi, l’accompagnavano ovunque volesse andare. Elvira aveva insistito che riprendesse a guidare e le aveva pagato le lezioni di scuola guida. E Tamar, qualche anno dopo, aveva pagato le lezioni di guida per sua figlia, nonostante il disaccordo di Luka. “Ma cosa me ne faccio, deda (mamma)?” Le telefonava Sveta, che non voleva dispiacere a suo padre “Fra un po’ andrò a Tbilisi all’università e non avrò un’auto a disposizione.”
“Tu intanto prendila chemi p’at’ara (piccola mia). A me è servita, alla fine. Domani potrà essere utile anche a te!”
Sentiva Sveta sospirare e la immaginava scuotere la testa bionda, con lo stesso movimento di suo padre, gli occhi rivolti al cielo, in un gesto che faceva fin da bambina. Era cresciuta bene la sua piccola e di questo doveva ringraziare i suoi suoceri, fino a quando erano vissuti, e suo marito che con lei era stato premuroso e severo e le aveva impedito di perdersi come succede a volte alle ragazze, incinte giovanissime, spose spesso infelici e poi divorziate con figli di cui, a volte, i padri si disinteressano
Come lei, però, anche Sveta era cresciuta senza una madre. Tamar aveva perso Ia sua a 10 anni. La sorella di suo padre si era occupata di lei, fino a quando si era sposata giovanissima, a 18 anni, ma una madre, nel periodo in cui si inizia ad uscire dall’infanzia ed a confrontarsi con il mondo, le era mancata. Ed era mancata anche alla sua Sveta.
Aveva dovuto lasciarla per venire in Italia quando aveva 12 anni. Certo, era tornata in Georgia tutte le volte che aveva potuto e si erano sentite per telefono e poi con le videochiamate, da quando, con la pandemia, questa modalità era diventata facile, quasi ogni giorno. Ma é diverso crescere una figlia, vederla tutti i giorni, guardarla negli occhi, svegliarla la mattina, prepararle la colazione, prepararle pranzo e cena, andare insieme a far compere, aspettarla quando non torna a casa in orario…
Forse per questo, rifletteva Tamar, si era così affezionata ad Andrea. Lui una madre ce l’aveva, ma Elvira, per il suo lavoro di chirurgo, impegnata tra ospedale, sala operatoria e congressi, non era molto presente. Tamar aveva sempre avuto la sensazione che ella temesse di fermarsi, per non crollare e per reprimere il senso di colpa. Suo marito era morto in un incidente stradale, due anni prima che lei arrivasse in Italia ed Andrea aveva perso l’uso delle gambe. Quando era accaduto, Piero, il marito di Elvira, insieme al figlio, stava andando a prenderla all’aeroporto, di ritorno da un convegno. Forse Elvira si chiedeva se sarebbe andata diversamente la sua vita, se lei non fosse andata a quel convegno, se non avesse insistito con il marito per farsi venire a prendere…
Elvira non si raccontava facilmente. Teneva per sé le sue preoccupazioni e negli anni trascorsi in casa sua Tamar non l’aveva mai vista lamentarsi o piangere. Solo una volta, quando ero arrivata da poco, l’aveva vista piangere in silenzio, tenendo tra le mani una foto del marito. Quando si era accorta della sua presenza, le aveva detto piano: “Oggi avremmo festeggiato i nostri 15 anni di matrimonio, io e Piero…Come faccio senza di lui…“
Tamar non aveva potuto fare a meno di abbracciarla forte, come avrebbe fatto con la sua Sveta.
Nel tempo fra le due donne si era creata un’intesa silenziosa, in cui Andrea era il legame, ma non solo: sapevano entrambe, aldilà del rapporto di lavoro che le legava, di poter contare l’una sull’altra.
Era stata la musica, invece, il ponte tra Tamar ed Andrea, lo scontroso adolescente che le era stato affidato. Un giorno l’aveva trovata a provare qualche nota sul suo pianoforte. Come molte bambine, in Georgia, aveva qualche rudimento di musica e fino a quando la madre era morta, aveva preso lezioni di pianoforte. Così avevano preso l’abitudine di suonare piccoli brani insieme. Una volta il suo insegnante di pianoforte li aveva ascoltati ed aveva detto che avrebbe potuto diventare una pianista, se avesse continuato gli studi. Invece era diventata insegnante di lingua georgiana e poi badante…Così va il mondo!
“Il caso governa le nostre vite…” rifletteva Tamar. Bastava guardare lei… Aveva lasciato la sua casa ed il suo lavoro per venire in un paese sconosciuto e rimanervi ormai da 15 anni…tanti…
E tante cose erano accadute in quel periodo della sua vita. Aveva appianato i debiti e la casa dei suoi ricordi era ancora sua; era riuscita a pagare gli studi universitari della figlia e adesso Sveta si era laureata in biologia. Ma LuKa, suo marito, se n’era andato per un cancro ai polmoni, durante il periodo del Covid e non era neppure riuscita a salutarlo o almeno a partecipare al suo funerale. LuKa le voleva bene e Tamar ne voleva a lui, anche se il tracollo economico l’aveva reso debole ed incapace di reagire. Il gioco d’azzardo era diventato la sua via di fuga dalla realtà, l’illusione di poter riprendere quello che aveva perduto. Lui e la sua famiglia, fino alla guerra civile che aveva devastato la Georgia negli anni 90*, avevano una ottima posizione economica e non conoscevamo la fame e le rinunce. Tante volte si era chiesta come sarebbe stata la sua vita se le cose fossero andate diversamente.
Ma a cosa serve “piangere sul latte versato?”, come dice Elvira, quando qualcosa va storto. “Troviamo una soluzione, Tamar!”
Quando Sveta era rimasta sola, aveva pensato di tornare in Georgia, pur sapendo che non avrebbero avuto fonti di guadagno tali da potersi mantenere entrambe.
Elvira ci aveva pensato su un attimo, poi le aveva detto: “Falla venire qui, Tamar. Io ed Andrea abbiamo ancora bisogno di te e tu é giusto che possa stare più tempo con tua figlia…Starà qui, finché tu vorrai stare ancora con noi e lei troverà una sistemazione.”
All’inizio Sveta non era molto convinta di raggiungerla in Italia.
“Me ak davibade, deda. Ეs aris chemi samq’aro!” (Sono nata qui, mamma. E’ questo il mio mondo!) le diceva. Tamara capiva che si sentisse come costretta ad una scelta, ripercorrendo un destino comune al suo
Alla fine, però, Sveta aveva accettato. “Va bene deda, facciamo una prova. Non so se resterò, ma ho davvero bisogno di stare con te, adesso…”
E domani arriverà!!..Con Elvira andranno a prenderla all’aeroporto di Bari. Tamar non vede l’ora.. Guarda le stelle dalla finestra e sospira di trepidazione e contentezza lasciandosi finalmente cogliere dal sonno.
* La guerra civile in Georgia è stata una sequenza di conflitti inter-etnici e intra-nazionali svoltisi tra il 1988 ed il 1993.
2. Elvira
Piove a dirotto e deve andare piano: l’asfalto è bagnato, deve essere prudente. Del resto non c’é fretta. Le piace guidare, l’aiuta a pensare. Elvira sintonizza l’autoradio su una stazione di musica e ripensa alla giornata appena trascorsa ed all’intervento del piccolo Luigi, più complesso di quanto si aspettassero lei e tutta l’equipe. La riconoscenza negli occhi dei genitori del bambino li ha ripagati delle lunghe ore passate in sala operatoria. La sua equipe é stata straordinaria. “Potrei passare il testimone al mio aiuto… E’ pronto, loro sono tutti pronti, ed anch’io, ora che sto per compiere 65 anni.” pensa Elvira, rendendosi conto che sta arrivando il momento di quest’altro passo della sua vita.
Ci sta pensando sempre più spesso, soprattutto da quando Andrea le ha detto che vuole andare a vivere per conto suo!
Era restata di sasso quando una sera di qualche settimana prima gliene aveva parlato “Caspita Andrea! Da solo, ma come farai? Ti sembra il caso?” Aveva esclamato sgomenta, lanciando un’occhiata a Tamar, che era presente, chiedendole silenziosamente sostegno.
“Ma’ sei la solita! Credo di essere abbastanza grande per potermela cavare da solo, non credi? O pensi che essendo un ‘diversamente abile’ dovrei sempre cercare l’aiuto di qualcuno e restare per sempre qui con te, che, del resto non ci sei quasi mai?!? Cosa ne dici Tamar?” Aveva continuato con l’ironico divertimento che spesso c’era nella sua voce, quando si rivolgeva alle due donne “Tu mi conosci ed in questi anni ti sei resa conto che non ho bisogno di una badante. Giusto?”
“Be’, quando eri più piccolo…” Aveva iniziato lei sorridendo “sicuramente avevi bisogno di una mano. Ma ora mi sembra una buona decisione.” Aveva continuato rivolta ad Elvira ”Inizierà a lavorare a Bari e non può fare tanti chilometri per tornare a Lecce tutti i giorni, Elvira, non credi?”
Lei aveva sospirato, poco convinta. Entrambi avevano ragione, naturalmente. Andrea avrebbe iniziato ad insegnare pianoforte al conservatorio di Bari, ed era impegnato sempre più spesso in concerti che lo portavano lontano da casa.
Ma Elvira lo sa, e lo sa anche Tamar, che la ragione di questo cambiamento si chiama Sveta…
La piccola Sveta, arrivata in Italia quella estate, bionda e minuta, quanto sua madre è alta e giunonica. Le era piaciuta subito ed era piaciuta ancor di più ad Andrea… Era smaniosa di trovare un’occupazione qualsiasi, perché, diceva, era il momento che sua madre smettesse di lavorare e che si occupasse lei di tutto, come aveva fatto Tamar per tanto tempo. Elvira pensava che sarebbe stata disposta a lavare le scale dei condomini, ma era riuscita a trovarle un posto par-time in un laboratorio di analisi a Lecce e la ragazza aveva anche iniziato un master all’Università di Bari. Le piace la genetica e lei, Elvira, si é subito resa conto che é preparata ed entusiasta. Da un amico comune all’Università di Bari, ha saputo che il suo professore ci tiene molto a lei e vuole proporla per una borsa di studio che le permetterebbe di restare in Italia come ricercatrice.
Ed Andrea si é innamorato… Elvira ci scommetterebbe la mano destra, quella che le serve in sala operatoria, che suo figlio vuole trasferirsi per stare più vicino a lei!
“Benedetto ragazzo!” Esclama ad alta voce, scalando la marcia, mentre Lucio Dalla alla radio intona Futura ’Chissà chissà domani Su che cosa metteremo le mani Se si potrà contare ancora le onde del mare E alzare la testa…’ “Già, Lucio, chissà domani.. Ma io mi preoccupo perché sono sua madre, perché lui dipenderà sempre da una sedia a rotelle e non è sempre facile con le barriere architettoniche di cui spesso chi non ha un problema neanche si rende conto. E Sveta é pronta ad aiutarlo, a restargli vicina nei momenti di sconforto? Preoccupazioni materne… Ma è giusto così, come dice Tamar… forse… “ Insieme a lui é andata a vedere alcune case a Bari. Ad entrambi è piaciuta una vicino al mare, a Santo Spirito, una villetta con un piccolo giardino, quasi affacciata al mare. Bisognerà fare alcuni cambiamenti perché sia fruibile totalmente, ma Andrea era entusiasta e, un po’ come faceva Piero, ha cominciato a pensare ai miglioramenti da apportare per renderla più adeguata alle sue esigenze di “diversamente abile” come dice lui ammiccando.
Caro Piero…Elvira pensa a lui meno spesso adesso, anche se il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato resterà per sempre. Ma è una malinconia sottile, il senso di incompiuto dei ricordi a cui si accavallano altre sensazioni ed altri momenti della parte della sua vita che ha trascorso senza di lui.
Lei e Piero ci eravamo conosciuti alla facoltà di Medicina, entrambi appassionati dalla chirurgia, ed entrambi allievi dello stesso maestro. Piero era diventato presto aiuto, mentre lei era restata assistente, anche se lui diceva un po’ celiando che i loro posti avrebbero dovuto essere scambiati, dato che Elvira era più brava di lui. Forse era così, ma a lei andava bene, anche perché era arrivato Andrea, molto desiderato e cercato da entrambi e si era dedicata al loro bambino, tralasciando la carriera in clinica, senza troppi rimpianti. Poi c’era stato l’incidente, uno stupido tamponamento a catena sulla statale 100, la fine del loro mondo.
I primi tempi era stata davvero dura. Elvira non avrebbe mai potuto scordare quanto si fosse sentita persa, spezzata, incapace di capire le ragioni di quanto era accaduto, se mai ce ne potessero essere. Il tempo trascorso in ospedale, dopo l’incidente, accanto ad Andrea, tra speranze, delusioni ed infine accettazione della realtà, che non avrebbe più potuto camminare, l’avevano segnata. Andrea era divenuto il fulcro del suo mondo, avrebbe voluto restare sempre con lui, con quel suo bambino che non si capacitava che non avrebbe più potuto correre, che si impuntava ed immusoniva per nulla, che si isolava ascoltando musica in cuffia ed andava volentieri solo alle lezioni di pianoforte, una passione che aveva ereditato da Piero. Ma doveva continuare a lavorare. Elvira si diceva, all’inizio, per “portare il pane a casa” e per pagare tutti i percorsi di riabilitazione possibili, fisici e psicologici per Andrea, ma poi si era resa conto che era anche un suo bisogno, un modo per affermare sé stessa, per dare un senso alla sua vita, al “dopo Piero”. Aveva avuto il suo posto in ospedale. ed era diventato un problema far conciliare la sua attività professionale con i bisogni di Andrea.
Stava quasi per rinunziare, quando nella loro vita era arrivata Tamar, la cara Tamar, che aveva preso con gentile fermezza le redini della loro casa, grande, disordinata e sempre un po’ sporca, come dice lei. Si era occupata di Andrea, dei suoi musi lunghi e dei suoi scatti di adolescente che Elvira non riusciva a contenere, a volte, divisa tra l’ansia di dover sopperire all’improvvisa mancanza di un padre ed il desiderio di defilarsi nel bozzolo sicuro del dolore e dell’autocommiserazione.
Elvira riconosceva che, per Andrea, Tamar era stata un supporto, più di quanto lo fosse stata lei, sua madre. Lo aveva sostenuto nei momenti difficili e coccolato rimpinzandolo di cibi georgiani dai nomi impronunciabili ma dai sapori deliziosi. Ed era stata Tamar orgogliosamente presente il giorno della sua laurea, perché Elvira era dovuta correre in ospedale per un’urgenza.
E per Elvira, Tamar era la sorella che non aveva avuto. Si erano capite e sostenute, forse perché entrambe avevano attraversato il dolore e la perdita, la solitudine e la mancanza.
Tamar, aveva anche lei vissuto momenti difficili, in quegli anni, come quando aveva scoperto che suo marito anziché appianare i debiti, aveva preso a giocare d’azzardo e purtroppo a perdere grosse somme di denaro. Allora era toccato ad Elvira farle un prestito ingente e lei era partita per il suo paese per pagare direttamente i debitori, non fidandosi delle promesse e delle scuse di Luka. Lui le aveva giurato di aver smesso con il gioco e Tamar stava pensando di farlo venire in Italia, per stare insieme ed allontanarlo dalle tentazioni, ma si era ammalato di cancro ed il Covid aveva fatto il resto.
E sua figlia Sveta era restata sola.
Era stata lei, Elvira a proporre, di farla venire in Italia, a casa loro. Non era pentita di averlo fatto, nonostante le preoccupazioni attuali per la sua storia con Andrea. “Tamar può finalmente stare con sua figlia, dopo tanti anni. Se lo merita” pensava, convinta.
Ha smesso di piovere. Elvira spegne il tergicristallo e pensa che adesso, probabilmente, lei e Tamar sperimenteremo un’altra solitudine…Chissà se resterà ancora con lei ora che Andrea si trasferisce a Bari, in una casa sua. Sveta, d’alto canto, da quando lavora, torna tardi ed a volte, se è impegnata con il master, si trattiene a Bari da una sua collega di corso… Forse adesso andrà a stare da Andrea…
Sospira. “Devo parlare con Tamar, devo sentire cosa ne pensa di questa storia tra mio figlio e sua figlia. Non voglio che Andrea soffra, è sempre il mio bambino, dopotutto. Ma so già che lei sorriderà e mi dirà di non preoccuparmi. Andrea e Sveta sono due adulti e adesso la vita devono scegliersela da soli. ”
Ha ragione, naturalmente, ed anche lei deve scegliere… “Se lascerò l’ospedale, potrei occuparmi d’altro. Magari potrei fare volontariato nel centro di accoglienza che una volta ha ospitato Tamar…Vedremo…”
Ferma l’auto, é arrivata a casa. Il mare, poco distante, ha i colori un po’ foschi del temporale che si va allontanando verso est, ma ad ovest il sole che tramonta, tuffandosi nell’Adriatico, infuoca l’acqua in quel momento magico che precede il crepuscolo.
Tamar l’aspetta sulla porta di casa. Elvira alzo la mano sorridendo in un cenno di saluto, mentre si avvia verso casa. Dietro di lei intravede Andrea che tiene Sveta per mano e sa che la stagione dei cambiamenti non è finita, anzi è appena iniziata.
3. Sveta
Sveta è scesa al mare, nonostante stamattina faccia piuttosto freddo, ma il gennaio pugliese non è quello di Telave, la sua cittadina nel Caucaso. Fiona, il cucciolo trovatello che lei ed Andrea hanno adottato, trotterella tutta contenta avanti a lei, annusando gli infiniti odori della battigia.
Andrea era ancora addormentato quando si é alzata piano, evitando di toccarlo per non svegliarlo. Non hanno dormito molto stanotte, in verità, come spesso accade: basta una carezza, un sussurro e si ritrovano a fare l’amore, persi l’uno nell’altra, dimentichi di tutto il resto. E’ restata un po’ a guardarlo con il cuore colmo di tenerezza e di sorpresa perché, poco prima, mentre si stringeva a lui, si è resa conto di aver saltato il ciclo di almeno 10 giorni…Più tardi farà il test, ma é sicura di aspettare un bambino, il figlio di Andrea…
Guardando il mare dello stesso colore grigio del cielo, ma stranamente calmo, pensa che non avrebbe potuto neppure immaginare che il suo viaggio verso questo posto ignoto avrebbe avuto una conclusione o sarebbe meglio dire un inizio speciale…
Quando studiava biologia a Tbilisi i suoi progetti erano diversi. Con Malik, il suo ragazzo, pensava di trasferirsi in Turchia, dove viveva la sua famiglia, e dove avrebbe cercato un posto di insegnante. Ma suo padre si era ammalato e non poteva lasciarlo da solo. Sua madre, grazie al suo lavoro in Italia aveva permesso a lei ed alla sua famiglia di vivere bene e di farla laureare. Toccava a lei adesso contribuire al benessere della famiglia, ed era tornata a Telavi, nella casa dei suoi genitori.
Malik, che dapprima le aveva scritto diverse volte, pregandola di raggiungerlo, lasciando a sua madre il compito di badare a marito, alla fine si era defilato. Sveta, pur delusa, era troppo occupata per piangersi addosso e seguendo l’esempio dell’altra donna della famiglia, si era rimboccata le maniche, dividendo il suo tempo tra l’assistenza al padre malato e il lavoro: aveva iniziato ad insegnare scienze per qualche ora alla settimana nella stessa scuola dove 15 anni prima, insegnava sua madre.
L’arrivo del Covid però aveva stravolto nuovamente la sua vita. L’aveva contratto a scuola e, nonostante le sue attenzioni, aveva contagiato il padre.
Era stato devastante per lei doversi occupare da sola del suo funerale.
Tante volte in quel periodo Sveta e Tamar avevano pianto, in video-chiamata, senza potersi toccare, abbracciare, condividendo dolore e senso di colpa, l’una per essere stata causa inconsapevole di quanto era accaduto al padre e l’altra per non poter esserle accanto in quei momenti. La morte di una persona cara, in Georgia comporta rituali familiari che non potevamo realizzarsi a causa della pandemia e ad entrambe sembrava di fare un torto al loro caro defunto.
Rimasta sola, Sveta avrebbe desiderato che sua madre tornasse a casa. Ma i risparmi di Tamar erano serviti per le costose cure oncologiche del marito ed il suo lavoro a scuola non sarebbe bastato a coprire le spese del riscaldamento nel rigido inverno del Caucaso. Così, se pure a malincuore, perché avrebbe lasciato in Georgia una parte di sé, aveva accettato la proposta fatta da Elvira di venire in Italia con l’intento di trovare un lavoro qualsiasi e risparmiare per poter tornare a casa, con sua madre.
“Adesso, non so più dove sia casa…” Pensa, seduta su una panchina del lungomare quasi deserto a quell’ora della mattina invernale, accarezzando il cucciolo che, stanco di correre, le si è accucciato accanto. “Si che lo sappiamo, invece!” mormora rivolta al cucciolo con un inconsapevole sorriso “Casa nostra è dovunque, accanto ad Andrea., piccola Fiona…” Il cucciolo scodinzola e le lecca le mani, come se approvasse.
Era sempre stata un po’ gelosa della famiglia di cui Tamar si era occupata, quando aveva dovuto lasciare la sua terra per cercare lavoro, in un posto che rappresentava solo un puntino in una penisola affacciata nel Mediterraneo.
Elvira ed Andrea non li aveva mai incontrati in tutti quegli anni, ma li conosceva bene, attraverso i racconti di sua madre. Conosceva i loro gusti, come vestivano, cosa facevano. Elvira era un medico affermato, le raccontava sua madre, con una punta di orgoglio, come se parlasse di una sorella o di una cara amica, sempre molto impegnata, ma anche attenta alla sua famiglia ed a lei. Andrea aveva la sua stessa età e si era diplomato al conservatorio. Era sulla sedia a rotelle dall’incidente in cui suo padre era morto. Non doveva avere avuto una vita facile, certo non dal punto di vista economico, ma lei non sapeva neppure immaginare come avrebbe potuto vivere dipendendo sempre da una sedia a rotelle, magari aspettando che qualcuno la aiutasse a superare un semplice scalino. Provava pena per lui, prima di conoscerlo di persona, poi quando aveva incrociato il suo sguardo dietro il suo ciuffo di capelli lisci che Andrea ha l’abitudine inconsapevole di tirarsi indietro, quando è soprappensiero, non era pena quello che aveva provato, ma smarrimento ed un caldo brivido di piacere quando le sue lunghe dita affusolate di pianista avevano toccato le sue.
Ci si può innamorare a prima vista? Sveta non sa ancora se sia possibile, ma é certa che è quello che le è accaduto.
Per Andrea non sa se sia stato lo stesso, Non glielo ha mai chiesto. Lei é una persona timida e riservata, pacata e riflessiva, quanto lui é imprevedibile, a volte attento e ponderato, a volte pungente ed ironico, a volte perso nella musica, che Sveta immagina diffondersi come una marea nella sua testa. Resterebbe per ore ad ascoltarlo suonare. Sembra concentrato sulla melodia che le sue mani sprigionano dal pianoforte, poi all’improvviso, si volta a guardarla in quel suo modo speciale e le sorride, coinvolgendo l’anima di lei nella danza della sua musica.
Al suo arrivo in Italia, il giorno in cui l’aveva incontrato, Sveta era frastornata e triste. Aveva trascorso le ore del volo da Tbilisi a Bari presa dai ricordi degli ultimi giorni trascorsi in Georgia, dei saluti lacrimosi delle amiche, del suo saluto alla tomba del padre, nel vecchio cimitero di Telavi, e della lunga passeggiata che aveva fatto a Shuamta, il complesso dei tre antichi monasteri immerso nel verde da cui, in lontananza, si vedono le cime innevate del Caucaso, proprio per imprimersi nella mente i paesaggi della terra che stava, suo malgrado, lasciando.
Durante il tragitto dall’aeroporto, dirette a Lecce, sua madre, con gli occhi lucidi di lacrime, non aveva smesso di abbracciarla, di accarezzarle i capelli come se fosse stata ancora una bambina. “Sabolood ertad, p’at’arav” (finalmente insieme, piccola), sussurrava. Lei era un po’ imbarazzata, ma allo stesso tempo contenta per quelle effusioni. Le erano mancate e, accoccolata sul sedile posteriore dell’auto di Elvira, accanto a sua madre, comprendeva quanto fosse mancata anche a Tamar. La malinconia che l’aveva accompagnata durante gli ultimi mesi, come una fasciatura stretta e rigida intorno al suo cuore, iniziava a scivolar via.
Tamar le chiedeva dei conoscenti in Georgia, della casa a Telavi, se l’avesse lasciata in ordine e si fosse ricordata di lasciare le chiavi alla loro vicina, che si sarebbe occupata, di tanto in tanto, di arieggiarla.
Lei annuiva fingendo disappunto. “Deda (mamma), sono abbastanza grande e me la so vedere. Non l’ho dimostrato in tutti questi anni?”
“Giusto! Ma lo sai che mi piace sapere che tutto sia a posto, p’at’ara (piccola mia).”
“Siete bellissime insieme! E quanto vi assomigliate, Tamar.” Aveva esclamato ad un tratto Elvira, che guidava e le osservava di tanto in tanto dallo specchietto retrovisore lasciandole chiacchierare tra loro.
“Davvero? Io trovo che assomigli di più a LuKa ed alla sua famiglia. Sua madre era piccolina e bionda come Sveta.”
“Tua figlia ha il tuo sguardo, cara e quando sorride, mi sembra te…”
Sveta capiva in parte la loro conversazione. Aveva preso qualche lezione di italiano quando avevo deciso di partire, ma soprattutto, Tamar da anni, nelle loro lunghe conversazioni telefoniche, si scordava di parlarle in georgiano e lei doveva fermarla ridendo “Non capisco quello che dici mamik’o dzvirpaso” (mammina cara). Allora Tamar traduceva ed alla fine Sveta aveva iniziato a capirla anche in quella lingua così diversa dalla sua.
“Grazie Elvira per avermi dato la possibilità di avere questa gioia così grande!” Aveva detto sua madre abbracciandola ancora una volta.
Elvira aveva alzato le spalle. “Non c’é da ringraziare, Tamar! Sono così contenta per te!” Poi si era rivolta a Sveta “Vedrai che starai bene, cara. Sono certa che il mare ti piacerà…” Ed aveva indicato la distesa azzurra e luccicante che si estendeva difronte a loro. “Siamo quasi arrivate. Conoscerai anche Andrea. Mi ha promesso che ci avrebbe aspettate. Non fare troppo caso se sarà di poche parole e si defilerà subito…”
“Andrea é sempre così impegnato, ma é un ragazzo davvero speciale.” Aveva aggiunto Tamar in un tono di orgogliosa difesa, quasi fosse stato figlio suo “Quando lo sentirai suonare non potrai più fare a meno di restare ad ascoltare…”
Ed é così, in effetti…
Quando si sono incontrati, quel primo giorno della sua nuova vita, Andrea le aveva rivolto solo alcune parole di circostanza e poi era tornato ad immergersi nel libro che stava leggendo… Però Sveta aveva sentito il suo sguardo su di sé, mentre parlava con Tamar ed Elvira nel suo italiano sgrammaticato. Si era voltata a guardarlo e si erano scambiati un sorriso.
Andrea era entrato prepotentemente nella sua vita. Le loro madri avevano incoraggiato uscite e passeggiate, per dovere di ospitalità, dandogli il compito di farle conoscere il posto in cui era venuta a vivere. Lui l’aveva portata a Santa Maria di Leuca, dove due mari, l’Adriatico e lo Ionio, si fondono dolcemente; erano risaliti ad Ostuni, un paese di un bianco abbagliante con una cattedrale che un po’ le ricordava le chiese georgiane, ed Alberobello, che le era sembrato uscire direttamente da un libro di fiabe per bambini.
Andrea l’aveva fatta innamorare della Puglia, mentre si innamorava di lui. Avevano scoperto interessi comuni, come i libri di fantascienza e il cinema.
E un giorno, tre mesi prima, mentre era seduta accanto a lui e chiacchieravano, commentando un film che avevano appena visto insieme, lui aveva allungato una mano ad accarezzarle il viso.
“Sei bellissima…” le aveva sussurrato, “Mi ricordi la Primavera di Botticelli. Posso baciarti?…”
Sveta era arrossita e, con il cuore che le batteva forte, si era avvicinata offrendogli le labbra e si erano dati il loro primo bacio…
Andrea non è il tipo che nasconde i propri sentimenti e l’aveva trascinata in un vortice incantato, nello stesso modo in cui suona la sua musica, senza curarsi troppo delle apparenze, capace di afferrarla con le braccia rese forti dagli anni passati a manovrare la sedia a rotelle e prenderla sulle proprie gambe per baciarla a lungo, incurante della presenza di sua madre o di Tamar, che facevano finta di guardare altrove, imbarazzate.
Sveta non sa se sua madre ed Elvira approvino fino in fondo la loro scelta di convivere. In Georgia non sarebbe stato possibile, e Tamar avrebbe voluto che fosse celebrato prima un matrimonio. Elvira ha invece altri dubbi: che lei si stanchi di Andrea, che possa farlo soffrire, che l’impegno accanto ad un disabile possa risultarle gravoso.
Ma questo Sveta non l’ha mai pensato e piuttosto il suo timore è che Andrea possa stancarsi di lei… Lo ama e, dopotutto, é figlia di sua madre, che mille volte ha perdonato suo padre e lo ha sostenuto, nonostante tutto. Lei, Tamar, Elvira, hanno imparato a lottare e ad andare avanti, comunque, perché, se pure esiste un destino per tutti, se pure il caso ci governa, la vita continua sempre e può sorprenderci, come ha sorpreso Andrea e lei. “Che importa pensare al domani?” si ritrova a pensare, con il cuore colmo di tenerezza, guardandolo mentre suona o si muove per casa con tranquilla destrezza o si ferma d’un tratto accanto a lei e le infila le lunghe dita nervose